C’è un nome che torna ogni autunno, quando Roma si spacca in due per il derby. Vincenzo Paparelli. Un uomo qualunque, un tifoso laziale, una famiglia normale. Il 28 ottobre 1979 non tornò a casa: allo stadio Olimpico un razzo lo colpì all’occhio, e morì poco dopo. Da allora la sua vicenda è diventata pagina nera del calcio italiano, simbolo di una violenza che ha fatto scuola per tutti i motivi sbagliati.
Le origini e la passione per la Lazio
Paparelli era un tifoso della Lazio, romano, appassionato del suo lavoro e della famiglia. Niente mitologie da curva: amava pescare, andare in bicicletta, vivere le domeniche con semplicità. Il suo nome, però, è rimasto legato per sempre a una data: il 28 ottobre 1979. Quel giorno, durante il derby Roma–Lazio, partì un razzo dalla curva avversaria. L’impatto fu fatale. La città intera ne parlò per mesi, e il Paese imparò che anche una partita può trasformarsi in tragedia.
Il derby del 1979: la tragedia allo stadio Olimpico
Era un Olimpico carico, un clima teso come spesso accade nelle stracittadine romane. Le cronache ricordano una pioggerella leggera, l’attesa prima del fischio d’inizio, la normalità apparente prima del boato sbagliato. Un gesto criminale, un oggetto pirotecnico lanciato come fosse un gioco. Da quel momento, la parola “razzo” non è più stata solo un termine sportivo, ma un simbolo di quanto sottile possa essere la linea tra passione e follia.
La famiglia Paparelli: un dolore che non passa
Ci sono storie che le famiglie non finiscono mai di raccontare, perché non finiscono mai di accadere. Negli ultimi anni il figlio, Gabriele Paparelli, ha spiegato quanto quel giorno abbia frantumato la loro vita.
“La vita della nostra famiglia non è stata più la stessa. Si è sgretolata in milioni di pezzi”, ha raccontato in un’intervista.
E su sua madre: “Era con lui quando morì, cercò di aiutarlo e riportò persino un’ustione. Aveva ventinove anni e cadde in una depressione da cui non si è mai ripresa totalmente.”
Parole dure, che impediscono a questa storia di diventare un semplice ricordo rituale. C’è anche la parte più scomoda, quella che torna come una ferita mai chiusa: le scritte sui muri, gli insulti, le frasi infami che Gabriele racconta di cancellare ancora oggi.
Memoria, silenzi e polemiche
Ogni 28 ottobre i tifosi laziali ricordano Vincenzo con striscioni e bandiere. È un gesto che va oltre il calcio: un rito di affetto, ma anche una riflessione sul modo in cui il tifo può essere civile o distruttivo.
Nel 2025, alla vigilia del quarantaseiesimo anniversario, Gabriele ha dichiarato: “Non ho mai ricevuto messaggi dalla Roma per la scomparsa di mio padre.” Parole che hanno riacceso un vecchio dibattito sulla memoria sportiva, sulle responsabilità dei club e sul peso dei silenzi istituzionali.
Accanto a lui c’è oggi una nuova generazione: la nipote Giulia, che va allo stadio con il nonno materno e ha chiesto di ringraziare in radio l’autore della bandiera dedicata a suo nonno Vincenzo. È una storia che si tramanda, ma non come rancore: come identità, come ricordo da proteggere.
Un simbolo che parla ancora
La verità è che Paparelli ci obbliga a una domanda semplice e scomoda: che cosa siamo disposti a tollerare in nome della rivalità sportiva?
Dal 1979 a oggi il calcio italiano è cambiato mille volte, tra tornelli, steward e telecamere. Eppure, ogni volta che scoppia un episodio di violenza, quel nome torna, come un monito che non smette di parlare.
Vincenzo Paparelli non era un simbolo. Era un marito, un padre. È forse questo che rende la sua storia così potente. A casa lasciò una moglie giovanissima e due figli piccoli. Nelle parole del figlio, oggi adulto, si sente ancora il rumore di quella pioggia sottile, la promessa di un padre che dice: “La prossima volta ti porto.”
Una frase semplice, diventata eterna.
Oggi, quarantasei anni dopo, la sua memoria è un frammento di coscienza collettiva. Sta a chi va allo stadio, a chi scrive di sport e a chi crede nel calcio come rito civile, decidere ogni giorno da che parte stare.
FAQ su Vincenzo Paparelli
Chi era Vincenzo Paparelli?
Era un tifoso della Lazio, romano, marito e padre di due figli. Morì il 28 ottobre 1979 allo stadio Olimpico
Perché la sua morte è considerata un simbolo?
Perché rappresenta il punto di non ritorno nella storia del tifo violento italiano. La tragedia di Paparelli ha cambiato per sempre il modo in cui si parla di sicurezza e di rivalità negli stadi.
Cosa ha detto recentemente il figlio Gabriele?
Ha ricordato il trauma familiare, la sofferenza della madre e la difficoltà di convivere con un ricordo così pesante. Ha anche denunciato il silenzio della AS Roma e le scritte offensive che ancora compaiono in città.
Come viene ricordato oggi Vincenzo Paparelli?
Ogni anno, il 28 ottobre, i tifosi laziali espongono striscioni e bandiere in sua memoria. La sua storia viene raccontata nelle scuole, nei giornali e nei documentari dedicati alla memoria sportiva.
Perché se ne parla ancora nel 2025?
Perché la violenza negli stadi non è mai del tutto scomparsa e il caso Paparelli resta un monito. Ma anche perché la famiglia continua a testimoniare, trasformando il dolore in memoria viva.

Sono giornalista pubblicista laureata in letteratura e content manager con una grande passione per la scrittura






