Nel cinema americano c’è un cognome che basta pronunciare per far scorrere un brivido: Perkins.
Anthony Perkins, l’uomo che con Psycho ha cambiato per sempre il modo di raccontare la follia.
Oggi quel nome torna… ma con un tono diverso. Oz Perkins, suo figlio, che ha preso l’eredità paterna e l’ha trasformata in qualcosa di sorprendentemente personale.
Il suo ultimo film, Keeper, in uscita a novembre 2025, è già tra i più attesi. Prima ancora c’era stato Longlegs, l’horror glaciale con Nicolas Cage che ha diviso ma anche affascinato pubblico e critica.
Oz non fa film per spaventare. Fa film per capire cosa resta dopo la paura.
Le origini di un regista “cresciuto nel buio”
Osgood Robert Perkins II, classe 1974, nasce a New York. Suo padre è Anthony, la madre Berry Berenson, fotografa e attrice raffinata. Una famiglia d’arte, ma anche di ferite.
Anthony muore nel 1992 per complicanze legate all’AIDS, Berry perde la vita nove anni dopo, l’11 settembre 2001.
“Ho perso i miei genitori presto,” ha raccontato lui. “Ma forse è da lì che nasce la mia ossessione per ciò che resta, per le presenze invisibili.”
Chi guarda i suoi film lo capisce subito: i fantasmi non arrivano mai dall’esterno, vengono da dentro.
Da bambino interpreta il giovane Norman Bates in Psycho II. È il suo esordio, ma anche un cerchio che non si chiuderà mai davvero.
Dall’attore al regista: l’horror come confessione
Negli anni Novanta Oz recita in diverse produzioni, da Six Degrees of Separation a Legally Blonde, ma è dietro la macchina da presa che trova la sua voce.
Nel 2015 dirige The Blackcoat’s Daughter: un horror cupo, quasi muto, dove la tensione nasce dal non detto. Poi arriva I Am the Pretty Thing That Lives in the House, più atmosferico che narrativo.
Con Gretel & Hansel (2020) sposta l’attenzione sul mito, e con Longlegs (2024) entra di diritto tra i registi più originali del cinema americano.
La stampa internazionale lo ha definito “il poeta dell’orrore lento”.
Lui, più semplicemente, dice di cercare un linguaggio per raccontare il vuoto.
Non è uno che strizza l’occhio allo spettatore: ti porta dentro e ti lascia lì, a fare i conti con la tua parte più oscura.
Keeper: l’orrore di coppia che non ti aspetti
Keeper, il film che uscirà a novembre, segna un nuovo passo.
Protagonista Tatiana Maslany, la “She-Hulk” televisiva, nei panni di una donna che si rifugia in una baita insieme al marito. L’atmosfera sembra romantica, ma qualcosa cambia lentamente.
Perkins lo descrive come “un horror delle relazioni”.
In pratica, non c’è un mostro nascosto nella casa: il mostro è il legame stesso, le crepe che si aprono tra due persone che si amano.
È un’idea semplice e spaventosa, perché mette a nudo la paura più comune di tutte: quella di non riconoscere chi abbiamo accanto.
Chi lo ha visto in anteprima parla di un film claustrofobico e intimo, dove la tensione cresce a piccoli scatti. “Non ho bisogno di far saltare il pubblico sulla sedia,” ha detto Perkins, “mi basta farlo pensare a ciò che lo tiene sveglio la notte.”
Lo scontro con Netflix e il “mostro” del dolore
Negli ultimi mesi Oz Perkins ha fatto parlare di sé anche fuori dai cinema.
Ha criticato la serie Monster: The Ed Gein Story, prodotta da Ryan Murphy per Netflix, dove compare anche la figura di suo padre Anthony.
“È la Netflixizzazione del dolore reale,” ha detto senza mezzi termini.
Una frase che ha acceso un dibattito enorme: dove finisce l’arte e dove inizia lo sfruttamento del trauma?
Per Perkins il confine è chiaro — non si usano le ferite delle persone per fare spettacolo. Nei suoi film la sofferenza c’è, ma serve a comprendere, non a vendere.
L’eredità di Anthony e la libertà di Oz
Molti si aspettavano che il figlio di Norman Bates finisse per imitare il padre. Invece no.
Oz ha scelto un’altra strada: più lenta, più personale, più psicologica.
“Non sto riscrivendo Psycho,” ha spiegato. “Sto cercando di capire da dove arrivano i miei incubi.”
In questo c’è tutto lui: il rispetto per la storia del cinema, ma anche il coraggio di tagliare il cordone.
E forse è proprio qui che nasce il fascino di Oz Perkins: nella sua capacità di raccontare il buio senza compiacersene, di trasformare la paura in linguaggio.
Un autore che non urla
Oggi, in un panorama pieno di horror gridati, Perkins è l’eccezione.
Non alza la voce, non insegue il colpo di scena. Lavora sui silenzi, sui corridoi, sulle pause.
I suoi film non vogliono spaventare: vogliono restare.
Dopo Longlegs e in attesa di Keeper, Hollywood lo guarda come una delle firme più interessanti del genere.
Un regista che ha trovato nel dolore una bussola, e che continua a usarla per orientarsi nel buio.
Come se, da qualche parte, Norman Bates lo stesse ancora osservando.
E lui, questa volta, avesse deciso di restituirgli lo sguardo.

Sono giornalista pubblicista laureata in letteratura e content manager con una grande passione per la scrittura






